Molte imprese mettono a disposizione dei propri dipendenti una flotta di auto “aziendali”. Si tratta, in altre parole, di automobili che vengono assegnate ai singoli lavoratori come fringe benefit (ovvero, come parte non monetaria della retribuzione prevista dal contratto), per essere utilizzate in viaggi o trasferte di lavoro (generalmente a spese dell’azienda stessa) ma anche nel tempo libero (in questo caso, i costi per la benzina spettano all’impiegato, che spesso deve pagare una quota di leasing). In altri casi ancora, le auto aziendali vengono impiegate da professionisti diversi a seconda dei casi, con la modalità del car-sharing. Secondo l’ultima indagine di Databank, l’80% delle auto aziendali viene acquistato dalle imprese, il 15% viene preso in leasing e appena l’1,5% è noleggiato. Il 50% circa delle vetture ha un’alimentazione diesel, e la percorrenza media oscilla intorno ai 30mila chilometri. In Italia, il mercato è comunque poco sviluppato: se in Europa le auto aziendali ammontano al 46% del totale, nella Penisola la percentuale scende appena al 26 per cento. La scarsa diffusione è dovuta anche a un trattamento fiscale che cambia a seconda del tipo di contratto (acquisto, leasing, noleggio) e che è stato spesso criticato perché troppo rigido, soprattutto se paragonato ad altre norme europee. Nonostante il passo avanti compiuto con il decreto legge 81 del 2007, che ha migliorato le condizioni di deducibilità delle auto aziendali, la nuova tabella pubblicata dall’Aci per calcolare il reddito derivante dall’uso promiscuo di queste vetture prevede, nel 2009, un rincaro medio del 5% rispetto all’anno precedente sul fronte delle ritenute fiscali e dei contributi previdenziali in busta paga.